“UN MURO NON BASTA”
Muro – Palestina.
Per chi mi chiede perché, a chi mi domanda cosa è il muro in Palestina: non posso fare altro che raccontare il muro, per quanto l’ho potuto sperimentare.
Prima volta: agosto 2001. Il muro non esiste ancora. Arrivo a Betlemme durante la seconda intifada su un taxi collettivo, due ore da Gerusalemme porta di Damasco, un giro improbabile su strade sterrate tra sterpaglie e sassicaie dorate, un cielo blu e una signora con i polli nella cesta.
Qualche casa dopo questa specie di deserto, poi il centro vuoto, i negozi sbarrati, la Chiesa della Natività vuota, un monaco ortodosso mi regala le ultime due candeline, e mi segue senza sguardo mentre attraverso i drappi polverosi della grotta della Mangiatoia, dove tutto sembra fresco nella luce calda delle candele. Poi la sagoma gigantesca di un francescano mi fa cenno di seguirlo, dobbiamo andare. Il ceck point, pochi baggioli di cemento armato e una guardiola, è circondato da carri armati e mentre guardo il paesaggio magnifico tra il tetto delle camionette israeliane e il cielo, il gigante mi accompagna fino a S. Salvatore in un quarto d’ora, al centro di Gerusalemme. L’incoscienza e la gioia di esserci mi regalano un ricordo che mi rende per sempre “testimone” di un’assenza.
Seconda volta: novembre 2005. Arrivo a Tel Aviv a un’improbabile ora della notte e parto immediatamente per Nazareth su un autobus. E’ buio, cerco di dormire, ma sono li e ogni tanto devo guardare fuori dal finestrino … e una sequela impressionante di tir passano sull’altra corsia, ognuno con un pezzo di prefabbricato in cemento armato … un pezzo di muro. Chiudo gli occhi e cerco di pensare “sono qui, dove voglio essere”.
Betlemme, qualche giorno dopo. Arrivo di corsa su un pulman con un gruppo di studenti. Si scende, ceck point extra lusso appena inaugurato, sembra un aeroporto. Fotografo disperatamente finchè una voce minacciosa mi impone di smettere. Ci ricomponiamo sul pulman, che è stato perquisito minuziosamente mentre con altrettanta acribia veniamo soppesati noi, pilotati da voci metalliche. Ok anche questa è fatta. Siamo dentro. Questa volta davvero. Percepisci il dentro, l’essere dentro, il muro che stringe le case … e quando non lo vedi lo senti, dentro i negozi riaperti, nel campo dei Pastori, nella Grotta della Natività, colma di gente, felicità di un’aria irrespirabile … Non so perché sono ancora felice di essere li, la luce delle candele e la polvere sono il segno di un’eternità di presenza di fede. Improvvisamente sulla piazza esplodono le campane, poi la preghiera dei muezzin, le chiacchiere … e il muro-che-c’è è ritagliato laggiù, grigio, insieme all’insediamento tutto bianco, spettrale, di Har Homa che ha distrutto una collina … ma negli occhi ho ancora i mosaici bizantini e nel cuore le porte troppo basse della Basilica. Ritrovo il gigante buono che mi riconosce e mi abbraccia. Gli sussurro “sei un eroe, grazie”, lui ride … asciugo una lacrima, mi sento un’idiota. E’ padre Faltas, che ha gestito i cinquanta giorni dell’assedio del 2002 della Natività.
Terza volta: novembre 2007. Il muro è dappertutto. E’ grigio, sciatto, sporco. Tutti pensiamo di sapere tutto sul muro. Le mie foto del 2005 sono allegre e pittoresche rispetto a due anni dopo. O sono io che ho cuore e occhi diversi.
Finalmente entro a Betlemme, dormo a Betlemme per qualche giorno. Ingresso privilegiato al ceck point, tanto più grigio, anche se tutto sembra andare come se niente fosse. Pernotto al Casa Nova Palace, il posto più di lusso dove mai abbia dormito tra Palestina e Israele.
TV e asciugacapelli in camera, evito di guardare se funzionano. Qualcuno suona il pianoforte a coda nel salone centrale, i gatti del direttore dormono a pancia all’aria dovunque sui divani morbidissimi … Internet adsl a disposizione della clientela.
Lascio la brama del controllo della posta elettronica agli altri, schizzo fuori nella piazza della mangiatoia, mi avvio su per la strada sotto la moschea, voglio arrivare prima di cena alla casa dei Salesiani per salutare degli amici. Pochi passi e tutti i lampioni si spengono.
Torno indietro. Una gentile signora alla reception mi avverte che da qualche tempo ogni sera tolgono la luce, non è consigliabile uscire dopo una certa ora. E aggiunge fiera che l’hotel ha un generatore proprio. Esco di nuovo sulla piazza: in effetti nessuna luce trapela dalle case.
Torno dentro e vado in camera, accolta da un urlo della ragazza con cui divido la stanza “c’è un gatto nella doccia!!!!!!!!”. Butto fuori il gatto e le racconto tutto: “allora non mi asciugo i capelli!” decide inorridita. La sera stessa apprendiamo che le scorte d’acqua arrivano da Israele una volta la settimana. Non ci laviamo per tre giorni, tranne che l’indispensabile, in quel bel bagno di granito scuro …
Entrare e uscire dalla città ogni giorno diventa una lungaggine spaventosa, il muro lo fotografo dovunque, ma il mio soggetto preferito diventa Har Homa, l’insediamento crudele come una ferita nel cielo della Giudea. In due anni è cresciuto di cinque volte, lo si vede da dovunque, a volte le false prospettive di certe strade lo fanno sembrare dentro la città … si, perché ci sono tanti posti a Betlemme che sono talmente in alto da dove il muro non si vede … non si vedrà mai … come dalla terrazza dei salesiani.
Si vede sempre il cielo da dentro Betlemme, se si vuole cercarlo.
Così come si percepirà sempre il muro, da dentro Betlemme, anche se non si vuole vederlo.
Quarta volta: qualche giorno dopo. Torno a Betlemme finalmente per conto mio, per andare a trovare un’amica che abita con la famiglia nel campo profughi di Dehisheh. Prendo un taxi con un amico alla solita porta di Damasco, che dopo un enorme giro ci porta direttamente al campo.
La mia amica ha una bella casa, nonostante per arrivarci la strada si snodi tra macerie e le case siano talmente vicine una all’altra da non sapere come facciano ad avere comunque tutti un minuscolo orto ordinato e quattro galline. Lei parla quattro lingue, suo marito e tutti i suoi cognati sono laureati. E’ molto fiera di mandare le sue figlie al College francescano, la scuola migliore di Betlemme.
Mi offre una tisana per il raffreddore e un piatto di rucola appena colta nell’orto. L’olio è buonissimo. Sono sapori che sono anche miei, da sempre.
Quando sono qui penso a lei spesso. La differenza tra la sua e la mia casa sta solo nel paesaggio esterno, forse è più pulita la sua. Ha un interessante sistema per mantenere perfetto il fornello a gas, che usa anche la mia amica Teresa qui a Colle, e devo ricordarmi che tra un anno avrà finito il profumo. Usiamo lo stesso, per sentici vicine, e so che ci tiene moltissimo.
So che non può uscire da Betlemme. Come quasi tutti i Palestinesi di li.
Siamo venuti via da casa sua che era ormai buio, ci siamo fatti accompagnare al ceck point Palestinese questa volta. In una luce livida hanno mandato indietro con prepotenza un ragazzo davanti a noi perché aveva 12 uova. Non si possono portare uova in Israele. Ha dovuto uscire e buttarle via.
Il mio amico aveva dimenticato il passaporto a Gerusalemme, per un attimo mi sono illusa di tornare a dormire a Dehisheh, nella stanza delle bambine della mia amica. Poi dopo averci squadrato in lungo e in largo, ci hanno fatto passare ugualmente. Fuori dal muro abbiamo preso un mini bus che ci ha riportato in un quarto d’ora a Gerusalemme, per tre shekel, contro i trenta del taxi del mattino.
Ho imparato che non bisogna mai aver paura a fare una vita normale in Palestina.
L’ho imparato dentro il muro.
Alessandra Angeloni
25 aprile 2008
per l’ascolto:
Alessandra Angeloni per “Sogni di Pietra”