“RELICS 15” di Sogni di Pietra: Guardando dentro la pietra, ma anche sopra la pietra.

 

Scendevamo lentamente verso il Mar Morto, curva dopo curva, con i fronti degli wadi scavati dalle acque che mostravano movimenti tettonici paralizzati da migliaia di anni.

Lei professore guardava dal finestrino della macchina e io le facevo domande che mi si affollavano nella mente.

Dal giorno in cui eravamo partiti ero passata dal rispettoso silenzio al mi scusi, poi al le posso fare una domanda.

Ora quasi giunti al termine del nostro breve viaggio chiedevo liberamente e lei sorrideva socchiudendo gli occhi.

“Oggi chiudiamo il giro del Mar Morto professore: queste faglie sono identiche a quelle che abbiamo visto salendo al Monte Nebo, vero?”

“si … “

E poi mi spiegò tante cose, un po’ le sapevo, però no, non sapevo niente e ascoltavo incantata.

Ancora mi suona nelle orecchie il suo più grande complimento: “questa almeno mi dà retta”. E detto da lui suonava come il migliore dei complimenti possibili.

Non so dire se era veramente burbero, me lo ricordo in camicia da notte a Nazareth su tutte le furie, ma con quel guizzo di fantasia negli occhi che si faceva perdonare tutto.

Del resto a Nazareth eravamo perennemente in ritardo e nessuno pareva dargli retta.

 

La giusta misura delle cose.

Se fosse stata capita la giusta misura che scaturiva dai suoi appunti scritti con matita 5B.

 

Come il suo loden blu attraversava lontano la Santissima Annunziata a Firenze, quando ormai disperavo di tutto.

Come quel fragile tramonto di Dicembre sulla strada che da Gerusalemme conduce al Giordano.

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25 gennaio 2016

Alessandra Angeloni

 

 

La Fenice

La Fenice -Radiodervish
Oltre il cielo,
su lontani cammini
attraverserò le porte del buio
per nuove luci…

Nella valle della dimenticanza,
nei campi del fuoco
ho bevuto il vino della solitudine
per lunghe stagioni…

Racconterò le favole delle nuvole
per dormire mille anni,
griderò la mia nostalgia alle stelle
per risvegliarmi al loro chiarore.

Oh Vita, seguirò solitaria la tua eco
per poterne cantare i segreti
e alla fine della terra
raccoglierò un fiore dimenticato.

Dal silenzio delle parole,
dalle spighe di grano
riprenderà il colore la cenere
ed i miei occhi torneranno ad amare di nuovo.

Nabil Salameh

(In search of Simurgh)

Papà occhiali

 

“RELICS 14” di Sogni di Pietra: Cartolina da Jebel Nebo

Siamo rimasti soli qui in cima alla montagna, nell’aria satura di albe e di tramonti, sotto gli alberi paralizzati nella forma del vento.
Io, William, la tua tomba e il cane.
Qui, dove lo sguardo si inquieta alla ricerca del riflesso della città di là dalla valle, l’immagine di te è vicina come il vuoto.
E la vita, di cui qui tu sei ancora l’ago, ha cucito anime che non sapevano di aver avuto parte di questa promessa.

“Fumi?” chiede socchiudendo li occhi.
“si”.
“Si è calmato il vento”.
“si”.
“E se …”
“si?”
“Se l’amore impossibile fosse l’unico che vale la pena di essere vissuto?”.
Mi abbasso senza rispondere, a scuotere la cenere.

In una scatola di scarpe custodisco il mio e il tuo tesoro. Antico, perfetto, fatto di sogni e di verità. Così piccolo.
Tu hai sorriso e hai detto “così piccolo … così perfetto … non sembra vero”
Ho sentito forte il desiderio di inginocchiarmi davanti a te che indifferente guardavi il tuo lavoro per sentirti ancora dire, come se non fosse importante, che l’amore perfetto non può che non essere possibile.

Ma non qui. In questo posto l’amore sta dentro una scatola che sprigiona luce e tu lo sai, l’hai vista e l’hai amata.
Hai guardato lontano, hai ascoltato la mia tosse e semplicemente hai amato con quel solo sguardo, portandoti via tutto, il vento, la pioggia, ogni singola pietra.
E ora che tu sei lontano da qui tu semplicemente sei, in attesa che il sogno avvenga.
E di nuovo i tuoi occhi appaiono e scompaiono tra le foschie, come la promessa che qui dà sostanza a tutte le cose.

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LE RICETTE DI CECILIA – 2) PANE ARABO (e un Tango)

LE RICETTE DI CECILIA

PANE ARABO

Il pane semplice come le cose vere, di Um Fathma.
Concentrata sulla zuppiera con farina per pane semintegrale, acqua, un pizzico di sale e un poco di pasta tenuta avvolta in uno straccio (“pasta madre”), la vecchia Fathma impasta con gesti vigorosi.
Seduta sotto la pergola dell’uva e delle zucche. Si copre la fronte con le mani e rimane immobile così. Nella casa bassa del Campo, dipinta di un tenue colore allegro.
Poi trasferisce tutto sul tavolo dopo essersi rimboccate le maniche del vestito.
Dalla cassapanca ha preso quello di velluto blù, con la pettorina ricamata fino alla vita con le sue stesse mani, le strisce dello stesso colore ricamate lungo i fianchi e le maniche larghe dell’abito. Ha stretto la cintura di pelle in vita ed appoggiato sul capo il velo bianco delle contadine di Betlemme.
Fathma impasta coi pugni, spingendo verso l’alto formando così una sorta di rettangolo di pasta che riarrotola verso l’interno. Così per diverse volte, finchè l’impasto non è bello amalgamato e compatto.
Tornano da scuola le bambine. Una famiglia di donne alte e belle. Intisaar va alla porta ad aspettare l’arrivo della nipote più grande di Fathma. Vuole vederla per prima la sua amica del nord.
Prepara poi delle palline e le arrotola sul tavolo. Dopo cinque minuti riparte dalla prima, appiattendola sul palmo della mano con una pressione decisa.
Il vecchio Saker piange perché la nipote parla un arabo un po’ rudimentale. Guardando quella figlia di suo figlio i suoi occhi si sciolgono, ne riconosce lo sguardo chiaro e profondo di bambina sorpresa, lì, a mangiare i fichi del cortile.
Le palline di pasta rimangono a lievitare sotto un canovaccio e una coperta, per circa un’ora.
I nonni, i miei nonni. Dieci figli, cinquantaquattro nipoti. I miei nonni e il profumo del pane che arriva dall’ingresso della casa, dove Fathma accovacciata toglie e mette i pani bassi e coloriti sul tavolo.
Fathma fa scaldare la pentola per il pane e cuoce la pasta appiattita rigirandola due o tre volte finchè ha raggiunto una coloritura omogenea.
Ho mangiato il pane caldo inzuppato nell’olio e nello za’atar, nonna, mentre tu mi guardi e ridi. Il profumo di pane ha mescolato le nostre vite, finalmente.

UN TANGO
Hai stretto le tue braccia intorno a me, prima ancora di baciarmi.
Istintivamente ho corrisposto mettendomi nella postura del tango.
E mentre appoggiavo la mano sinistra sul tuo bicipite, afferravo la tua sinistra con la mia destra, appoggiavo il mio petto al tuo lasciandomi andare, ho sentito che cosa è il Tango.
Esattamente quell’appoggiare tutto il mio peso al tuo petto, affidandovi il mio, quell’accostare la mia guancia alla tua. Quel lungo attimo in cui ho sentito la tua sostanza, la tua forma, perfettamente adattata alla mia. Anche se siamo rimasti fermi è stato Tango.
Nella tua cucina, perché in cucina succedono sempre le cose importanti, tra me e te.

LE RICETTE DI CECILIA – 1) HUMMUS (e una lezione di Tango)

LE RICETTE DI CECILIA
HUMMUS

Questo semplice purè di ceci e salsa di sesamo ha come ingrediente essenziale una punta di nostalgia.
Trecento grammi di ceci cotti e ben scolati
La sera che ero appena tornata a Gerusalemme tu volevi mangiare l’hummus, e l’abbiamo trovato in un posto un po’ buio al Muristan, mentre un bambino saltava sulle luci incastrate nel pavimento della strada e ridendo mi dicevi che l’avevi fatto anche tu, la sera prima.
Ripassare i ceci in padella a fuoco vivace con uno spicchio d’aglio abbondante Cumino, Curry sale e olio
Poi l’abbiamo mangiato, senza falafel ma accanto alla pentola dei falafel, sul canto della via Dolorosa. Non era buono come quello che faccio io e in cinque minuti si puzzava di fritto da non poterci star vicino. Il giorno dopo tu hai rimesso la stessa maglietta e io tuffavo la testa nei libri un po’ per sentirne l’odore di polvere un po’ per non ridere, apparentemente senza senso.
Una volta insaporiti, schiacciare i ceci in un piatto con una forchetta amalgamando col sughetto di olio e spezie, evitando lo spicchio d’aglio
Tu riuscivi a mettere in disordine la mia stanza, con le quattro cose che portavi con te, il sorriso disarmate e la tua mente lucida. Con la tristezza liquida dei tuoi occhi. Con la tua goffa, ingenua eleganza. Entrava la luce e l’aria fine di Gerusalemme con te, nella mia stanza.
Aggiungere la salsa di sesamo, che si chiama Tahina, poco più di un cucchiaio, e il succo di un limone grande e ben maturo
Mi offrivi il caffè, non vedevo l’ora del tuo caffè e di accompagnarti a fumare sulla terrazza. Lì, dove tutto il mondo è così vicino; anche un enorme pulcino di pavone sulla terrazza di fronte. La sera passavo sulla terrazza accanto e pensavo che il pane di Ramadan col sesamo non arrivava mai a casa, troppo buono da mangiare per strada.
Mescolare accuratamente con sale e olio quanto basta, prima di passare un attimo al frullatore
“Ti piace l’Hummus?” una domanda rarefatta adesso qui, seduto nella tua cucina.
Non so quanto sia stata dura con te Gerusalemme, adesso che mi dai le spalle mentre prepari l’hummus e mi sembri ancora quella che la sera andava via con malavoglia, quasi ti spiacesse attraversare la città da sola. So solo che dopo l’hummus e il caffè avrei voluto stringere le tue mani forti e lasciare che tu ti appoggiassi a me, se soltanto fossi stato capace di un passo di tango per portarti via.
Disporre la crema in un piatto dai bordi rialzati, spolverare di paprica, decorare con qualche cece e prezzemolo, aggiungere un filo d’olio e servire.
Scendo di corsa le scale in pietra e quell’odore di naftalina prima dell’ingresso ognoi volta mi ferma. Quell’odore buono, rassicurante, che mi ricorda Michele e la mia nonna, che mi fa venire voglia di sedermi sull’ultimo scalino ad aspettare un abbraccio. Fuori c’è Gerusalemme c’è Ramadan e tutti gli odori variabilmente si mescolano. E attraverso la città pensierosa mentre le parole si confondono dentro di me.

UNA LEZIONE DI TANGO
Ti ho detto che un giorno ti avrei insegnato a ballare il Tango; avrei voluto farti alzare, costringerti a sostenermi nella “posizione aperta” da studio, costringerti a sentire il mio peso sul tuo cuore, costringerti a guidarmi all’indietro.
Ma avrei dovuto spostare libri e sedie ma soprattutto costringerti.
O, meglio, convincerti ad alzarti, a afferrarmi le spalle e a guidarmi passo dopo passo. Sarebbe stato imbarazzante.
Come esige il Tango ho camminato con te ascoltandoti senza parole, affidandomi. Come esige il Tango ho mosso i passi con leggerezza per seguire i tuoi.
Credo che ogni momento sia stato Tango solitudine nostalgia finitezza, con te.

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Per l’ascolto: Astor Piazzolla “Vuelvo al Sur”

“RELICS 11” di Sogni di Pietra

ZA’ATAR

Febbre. Una febbre che mi scuce le membra. Quasi un rantolo il respiro.
Tu sei arrivata col solito sorriso disarmante e la voce incerta hai detto “Dai, stasera resto qui, se vuoi”. Ti ho detto si, ti sei tolta la giacca la sciarpa e sei rimasta li, con il tuo vestito nero corto, fragile e un po’ impacciata. Sono tornato a letto a seguire inquieto i tuoi movimenti, un po’ perché sono abituato a non avere in casa nessuno, un po’ perché sei tu.
Quando sei uscita ti ho guardato da dietro ed eri bellissima come sempre. Ti guardo da dietro perche da davanti ancora non mi riesce, mi imbarazza il tuo sguardo e tu come se lo sapessi eviti di guardarmi fisso negli occhi.
Poi sei tornata, ti sei spogliata e ti sei infilata nel letto, al contatto della tua sottoveste amaranto un brivido mi ha scosso di nuovo. Tu mi hai appoggiato una mano dietro alla nuca come se sapessi che mi sentivo la testa scoppiare, io ho accarezzato la seta della tua pelle e mi sono addormentato.

Samir, anche se non lo sai ho freddo con questa sottoveste sbracciata e sono così stanca. Ma sono qui e forse ti da noia anche la mia mano che ti regge la testa, ma ho bisogno di sentire i tuoi capelli morbidi, il tuo sudore, la tua forma nelle mie mani. Voglio vegliare la tua febbre affinchè finisca, non posso lasciarti solo, anche se forse preferisci esserlo quando stai così male. Ascolterò il tuo respiro per rimanere sveglia.

Tu dormi Haneen, piccola Haneen dalla pelle ambrata e profumata. Mi spaventa sentirti vicina, perché non c’è mai nessuno nel mio letto, ma mi piace sentirti respirare, guardarti dormire.
Chi sei Haneen? Non so niente di te, non so cosa vuoi. E tu non dici niente mai, mi guardi con i tuoi occhi tristi e mi sorridi, e io non riesco a sostenere il tuo sguardo per più di un attimo.
Forse sto delirando.
Ti alzi e dici che vuoi bere e se ne voglio anch’io, dico si e ti guardo di nuovo da dietro, con quella sottoveste che ti fascia le forme e i capelli neri lisci e lucidi lungo la schiena.

Samir ecco l’acqua. Non avevo sete ma tu devi bere e mi sono alzata per te. So che mi stai guardando mente esco dalla stanza e cerco di camminare piano, per non riempire troppo lo spazio.

Torni e ti siedi sul letto, avvolgendo con le braccia le ginocchia con un gesto elegante e misurato, mentre mi guardi bere.

La giusta misura delle cose, questo ho imparato Samir attraverso te.
Ho imparato a misurare tutto ciò che ancora dovevo imparare, quando intere città e centinaia di pietre erano passate attraverso me e i miei occhi.
Il mio cuore ha imparato a misurare dopo aver conosciuto te.
Per questo sono qui. Ancora qui, ogni tanto, e non parlo se non dell’indispensabile.
Non voglio essere amata, mi basta amare. Amare è l’unica scelta possibile per me. Per questo sono qui. Ancora qui. Non chiedo niente, perché questa è la misura dell’amore.

Haneen piccola fata, alzati e non guardarmi, ma fatti guardare. Sei un mistero ma anche un miracolo, proprio per come sei.

Samir mi piace che tu mi dica che sono bella, elegante: tu non sai le tue piccole parole nascoste come rendono felice la giovinezza che mi porto dentro.
Chi sei Samir? Le parole hanno un peso e non vanno sprecate, e questa giusta misura delle parole mi piace. E tu non dici niente mai, ci guardiamo negli occhi solo di sfuggita e anche questa è una misura giusta, una traiettoria che non va sprecata.

Febbre. Una febbre che mi scuce le membra. Quasi un rantolo il respiro.
Mi sveglio e faccio fatica a capire in quale tempo mi trovo.
Sento i suoni e intravvedo la luce della città attraverso la finestra, una città che non è la tua ma è anche tua.

Il mio cuore cerca qualcosa da misurare e senza fretta trova la giusta distanza che lo separa dal tuo.

19 02 2010
Za’atar by Sogni di Pietra

Per l’ascolto:

“RELICS 9” di sogni di Pietra

Cartolina da Gerusalemme

“Allora ti lasciamo davanti alla Porta Nuova, non c’è tempo per arrivare nel cortile di San Salvatore”
“Va benissimo, grazie”
“Ciao Ale stammi bene”
“Grazie Francesco, ci vediamo tra una decina di giorni, fate buon viaggio! Arrivederci professore, stia tranquillo, sistemo un paio di cose qui”
“Ciao ciao Alessandra, tanto sai dove andare, aspetta ti aiuto a scaricare la valigia”
“Grazie Ricardo, grazie, faccio da sola!”
“Ciao, stasera chiamami a Nazareth, quando ti sei sistemata”
“Si Ricardo, si, ciao”
“Ricardo andiamo, facciamo tardi all’aereoporto!”

Prendo a passi rapidi verso la porta e mi fermo.
No, non sono io a fermarmi, è il sapore di un desiderio vissuto: sono sola a Gerusalemme.
E’ lo stupore di essere a Gerusalemme che mi ha fermato, chiedendomi subito conto di ognuno dei miei passi, di ogni mio respiro, di tutti i miei pensieri.
Sono sola a Gerusalemme.
Sola.
Non io sono ferma in mezzo alla strada, è la strada che ha fermato i miei passi.
Le pietre della strada non sono sole, fanno una strada.
Rimango ferma e sento che tutto è vivo, la stoffa della mia camicia che mi accarezza la pelle – non mi ero mai accorta che lei mi accarezzava così.
Guardo le mie scarpe e mi mette allegria pensare che sono le uniche con cui non si scivola sulle pietre troppo lisce della città.
Le pietre.
Ognuna di loro accoglie il mio peso per il tempo del mio passare.
Amo le pietre delle strade di Gerusalemme, perché ad ogni passo mi insegnano il rispetto e l’attenzione per ognuna di loro.
Dunque sono sola e non sono sola perchè i piedi si compiacciono della pietra.
Piano alzo gli occhi dalla strada e vedo altri profumi densi di stupore. E luce e aria tersa.
Lo stupore diventa una lente e mi vedo piccola, con la camicia bianca, seduta sulla mia valigia rossa.
C’è solo questo, e un tappeto di pietre da attraversare.
Oggi voglio affondare con calma ogni mia lacrima nelle pietre di Gerusalemme.
Di solito a Gerusalemme si cammina a passo spedito. Sempre, in questo clima di desiderio.
Trascino la valigia rossa fino al Santo Sepolcro, voglio abbracciare il pavimento. Si, il pavimento. Voglio abbracciare il pavimento a faccia in giù come fanno i preti quando vengono consacrati.
Quante pietre copre il mio corpo, questo voglio sentire, insieme all’odore di polvere e di passi della chiesa più trasandata della terra.
Arrivo al mio posto tra due colonne del transetto della Vergine, ne abbraccio una stringendola forte, e mi siedo accarezzando tutte le croci che ci sono incise.
“Alexandra! Che Dio ti benedica, sei arrivata!”
Una luce si apre dietro alla porta, lasciando intravvedere un ritaglio di blù, la corte del convento ortodosso.
“Metti la valigia qui nell’ingresso e vai a salutare!”
“Pantaleo! … ma …”
Mi abbraccia forte, e sento l’odore della tonaca vecchia e sporca, l’odore di S. Sepolcro … di pietre e polvere, di fede benedetta dalla gioia, di incenso e ambra.
A sera riesco a sdraiarmi a faccia in giù davanti al Calvario, mentre i monaci passano la scaletta dentro il portone che viene chiuso per la notte.
Quando mi alzo la mia camicia è sempre bianca e il mio cuore ha la forma della Stella a dodici punte che sta sul luogo del martirio, o almeno mi piace pensarlo.
Mi piace non pensare nel Sepolcro. Temo di essermi addormentata appoggiata a un capitello bizantino a cesto talmente grande da non poter essere contenuto nella mia immaginazione, prima di averlo visto. Il muezzin sta intonando la preghiera delle quattro e mi accarezza il cuore con le mille declinazioni dell’amore per Dio. Tra poco incominceranno i greci, poi gli armeni, poi i latini.
Bacio il capitello e scendo al Sepolcro immerso nel buio.
Attendo la luce dell’alba che scende a raggi dall’alto della cupola e il momento di andare.
I miei passi sono leggeri, di nuovo veloci lungo la strada di pietre lucide.
La vita scorre a Gerusalemme e nelle mie vene.
Finalmente porto a casa la valigia rossa, l’appoggio sull’armadio senza aprirla.

La tua valigia blu è il legame più forte che c’è tra noi.
La guardo sempre dopo aver fatto l’amore appoggiata sull’armadio, chiusa, in un attimo apparente prima di ripartire. La valigia che mi hai prestato qualche volta e di cui adesso non ho più bisogno perché ne ho una rossa, chiusa su un armadio a Gerusalemme.
E la mia mente tira una linea precisa tra due punti sul mondo in cui stanno due valige e penso che quella che le separa è la distanza giusta.
Come l’amore tra noi è la misura giusta, ne più ne meno, dell’amore.
Esco e mi avvio verso la porta di Damasco.

Mi siedo sotto le volte, al bar accanto al cambiavalute.

Qui finalmente non sarò più straniera.
Alla porta di Damasco.

Alessandra Angeloni

30 ottobre 2009

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Archi della Vergine – Transetto Nord Santo Sepolcro

per l’ascolto:

“RELICS 8” di sogni di Pietra

Cartolina da Nazareth

Abuna Amjad Sabbara sorride da una pagina di giornale parlando della “Gioventù del dialogo”, e tutto è meno improbabile adesso che gli studenti mussulmani e cristiani del College hanno riempito per giorni la finestra della mia camera con i campi estivi consumati nel piazzale della parrocchia di Nazareth.
Notti d’afa, passate a fare musica e chiacchierare fino a giorno.
E ad ascoltare Fairuz, la struggente voce che canta Hibbeitak biSayf.

Hibbeitak, ti ho amato … di queste parole ne è sapida l’aria, quasi come del caldo.

Era l’inizio dell’inverno e io e Grazia ascoltavamo senza capire Fairuz dirette a Livorno, dove si stava per perfezionare, con la precisione propria del cosmo, il nostro ultimo ricordo di Michele.
Era l’inizio dell’inverno e di domenica mattina presto ho trovato una chiamata di Nico, sono tornata sui miei passi e mi sono seduta sul muretto della parrocchia di campagna. Un tempo presente diventava un tempo passato. Hibbeitak Abuna Michele.
Era l’inizio dell’inverno e siamo tornate a Livorno, con Leyla.

Ti abbiamo visto per l’ultima volta e mi sono arrabbiata perché la Bibbia che avevano messo sul tuo saio non mi sembrava abbastanza bella, ma a Carmelo non ho detto niente perché mi sembrava diventato più piccolo del solito. Era tutto così piccolo. Poi quando hanno chiuso la bara sono andata a fumare lacrime con Nico che sembrava non vedermi. Sapevo che nel suo cuore Fairuz stava cantando Hibbeitak ed era inutile aggiungere qualcosa. Susanna mi ha abbracciato le spalle, come faceva quando ero a Genova. Era tutto piccolo fermo ad un presente che non esigeva futuro.
Tu sei partito dopo la messa e ci hai lasciati li, tutti uguali. Professori universitari, produttori cinematografici, frati e allievi. Tutti uguali, con tutti i nostri errori. Ti hanno portato a Roma e poi ti hanno sepolto sul Monte Nebo, a guardare le steppe di Mohab e Gerusalemme.
Volevo stringere la mano di Leyla e Roberto durante la messa perché stavano accanto a me ma mi è sembrato troppo appariscente farlo e ho rimandato.
Al ritorno ci siamo perse al porto e poi per darci un contegno Layla ci ha tradotto la canzone di Fairuz parola per parola e ce l’ha insegnata a memoria e ha detto che facciamo progressi con l’arabo.
Così abbiamo riso e cantato Hibbeitak biSayf prima piano e poi a squarciagola fino a Firenze.

Abuna Michel senti …
A Nazareth il giovedì sera c’è l’Adorazione in Basilica che coincide con l’ora della preghiera mussulmana e il muezzin canta come un angelo e tutti adoriamo Allah … tu le sai queste cose no?
Lo sai vero che è tutto troppo vero e troppo bello Abuna?
E che se ero lì e ho visto i ragazzi della parrocchia baciarsi la notte sul muretto è stato perché tu sei stato parte della mia vita?
Hibbeitak Abuna Michel.
Alessandra Angeloni

14 agosto 2009

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per l’ascolto:

“RELICS 10” di Sogni di Pietra

SOGNI DI PIETRA

“Conviene organizzare il futuro con entusiasmo.
Ma per fare questo è necessario salvare il passato.
La storia è fatta di Sogni avvenuti.”
J. L. Borges

Questa frase di Borges riassume la mia esistenza, insieme ad un libretto che mi trovò e mi cambiò la vita: “Pietre che cantano” di Marius Schneider, appena pubblicato da Archè nel 1976.
Credo che in quegli anni in cui si cerca una dimensione dell’essere io abbia capito che potevo essere musicista, architetto e archeologa in un unico atto di creatività: l’ascolto, la misura e l’interpretazione del silenzio delle pietre.
Ho affondato le mie mani sulla pietra e ne ho tratto suono. Ho accordato gli strumenti che erano in quel libricino, esercitandomi nella misura dell’opera dell’uomo, e nella misura del tempo inteso come altezza del suono.
“Sogni di Pietra” sono storie narrate dalle pietre che ho incontrato nella mia vita, quei “sogni avvenuti” che ho cercato di interpretare dai “relitti” di materia antropizzata.
Il passato riconduce al presente interiore e giustifica il proprio modo di esistere come realtà umana. E la mia interpretazione del passato si legge sulla pietra, perché le leggi della mutazione hanno su di lei una misura diversa del tempo: quando non è ancora toccata dall’uomo la pietra simbolizza la perfezione primordiale concretizzata. Sopra di essa si edifica tutto il “visibile”, con essa si esprime tutto l’”invisibile”.
Dar “voce” alle pietre, significa far emergere una storia “parallela”, non deducibile dai criteri culturali della nostra epoca ma “gridata” da capitelli e sculture, dando vita a dei sogni antichi.
“Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus” è un esametro da “De contemptu mundi” di Bernardo Morliacense, un benedettino del XII secolo.
Oltre che essere il verso finale del romanzo “il nome della Rosa” di Umberto Eco, questa frase è riportata nel frontespizio della bibliografia della mia tesi di laurea in architettura (1986), proprio per indicare l’idea che di tutte le cose di un tempo, narrate nei testi e nelle rare fonti riportati nel vastissimo elenco ragionato, rimangono puri nomi.
Abelardo poi ripiglia questo esempio (nulla rosa est) per mostrare come il linguaggio potesse servire ad indicare sia le cose scomparse che quelle inesistenti, dando così un senso alla mia intuizione dell’impossibilità di determinare un confine tra lo scomparso e l’invisibile.
Da questo nasce la definizione da me creata nella tesi di cui sopra di “sogni di pietra”, per indicare i ruderi a cui dare una dignità attraverso la ricerca petrografica, geomatica e archeologica.
( Concetto semantico che si avvicina fortemente al “l’essenziale è invisibile agli occhi” di De Saint Exupèry, che però all’epoca non ritenni ancora opportuno citare).
Ho studiato sogni fatti di pietra con gli strumenti della scienza e dell’ascolto.
E in qualità di sogni di pietra tutte le mie architetture sono state rigorosamente usate come partiture musicali, che avevano la pretesa di esprimere quell’essenza ormai riducibile a puro suono.

L’immagine superata dal nome, il nome superato dal suono.
“Sogni di Pietra” è stato il titolo di un gruppo di brani musicali progettati ed eseguiti con tecniche elettroniche nel 1991 col gruppo “TAS – tecnologie delle arti sonore”.
Tute le volte che scavo, che misuro, che “restituisco” i miei rilievi lavoro come ad una partitura musicale, studiando altezze e forme d’onda.
Ma soprattutto, ponendomi ogni volta in ascolto. E cercando tecniche di misura = conoscenza sempre più raffinate.
Non pongo alla mia ricerca nessun’altro confine se non quello della mia stessa vita.

Alessandra Angeloni
Sogni di pietra

21 agosto 2009
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per l’ascolto:

http://www.myspace.com/tecnologiadelleartisonore

“RELICS 5” di Sogni di Pietra

“UN MURO NON BASTA”

Muro – Palestina.

Per chi mi chiede perché, a chi mi domanda cosa è il muro in Palestina: non posso fare altro che raccontare il muro, per quanto l’ho potuto sperimentare.

Prima volta: agosto 2001. Il muro non esiste ancora. Arrivo a Betlemme durante la seconda intifada su un taxi collettivo, due ore da Gerusalemme porta di Damasco, un giro improbabile su strade sterrate tra sterpaglie e sassicaie dorate, un cielo blu e una signora con i polli nella cesta.
Qualche casa dopo questa specie di deserto, poi il centro vuoto, i negozi sbarrati, la Chiesa della Natività vuota, un monaco ortodosso mi regala le ultime due candeline, e mi segue senza sguardo mentre attraverso i drappi polverosi della grotta della Mangiatoia, dove tutto sembra fresco nella luce calda delle candele. Poi la sagoma gigantesca di un francescano mi fa cenno di seguirlo, dobbiamo andare. Il ceck point, pochi baggioli di cemento armato e una guardiola, è circondato da carri armati e mentre guardo il paesaggio magnifico tra il tetto delle camionette israeliane e il cielo, il gigante mi accompagna fino a S. Salvatore in un quarto d’ora, al centro di Gerusalemme. L’incoscienza e la gioia di esserci mi regalano un ricordo che mi rende per sempre “testimone” di un’assenza.

Seconda volta: novembre 2005. Arrivo a Tel Aviv a un’improbabile ora della notte e parto immediatamente per Nazareth su un autobus. E’ buio, cerco di dormire, ma sono li e ogni tanto devo guardare fuori dal finestrino … e una sequela impressionante di tir passano sull’altra corsia, ognuno con un pezzo di prefabbricato in cemento armato … un pezzo di muro. Chiudo gli occhi e cerco di pensare “sono qui, dove voglio essere”.
Betlemme, qualche giorno dopo. Arrivo di corsa su un pulman con un gruppo di studenti. Si scende, ceck point extra lusso appena inaugurato, sembra un aeroporto. Fotografo disperatamente finchè una voce minacciosa mi impone di smettere. Ci ricomponiamo sul pulman, che è stato perquisito minuziosamente mentre con altrettanta acribia veniamo soppesati noi, pilotati da voci metalliche. Ok anche questa è fatta. Siamo dentro. Questa volta davvero. Percepisci il dentro, l’essere dentro, il muro che stringe le case … e quando non lo vedi lo senti, dentro i negozi riaperti, nel campo dei Pastori, nella Grotta della Natività, colma di gente, felicità di un’aria irrespirabile … Non so perché sono ancora felice di essere li, la luce delle candele e la polvere sono il segno di un’eternità di presenza di fede. Improvvisamente sulla piazza esplodono le campane, poi la preghiera dei muezzin, le chiacchiere … e il muro-che-c’è è ritagliato laggiù, grigio, insieme all’insediamento tutto bianco, spettrale, di Har Homa che ha distrutto una collina … ma negli occhi ho ancora i mosaici bizantini e nel cuore le porte troppo basse della Basilica. Ritrovo il gigante buono che mi riconosce e mi abbraccia. Gli sussurro “sei un eroe, grazie”, lui ride … asciugo una lacrima, mi sento un’idiota. E’ padre Faltas, che ha gestito i cinquanta giorni dell’assedio del 2002 della Natività.

Terza volta: novembre 2007. Il muro è dappertutto. E’ grigio, sciatto, sporco. Tutti pensiamo di sapere tutto sul muro. Le mie foto del 2005 sono allegre e pittoresche rispetto a due anni dopo. O sono io che ho cuore e occhi diversi.
Finalmente entro a Betlemme, dormo a Betlemme per qualche giorno. Ingresso privilegiato al ceck point, tanto più grigio, anche se tutto sembra andare come se niente fosse. Pernotto al Casa Nova Palace, il posto più di lusso dove mai abbia dormito tra Palestina e Israele.
TV e asciugacapelli in camera, evito di guardare se funzionano. Qualcuno suona il pianoforte a coda nel salone centrale, i gatti del direttore dormono a pancia all’aria dovunque sui divani morbidissimi … Internet adsl a disposizione della clientela.
Lascio la brama del controllo della posta elettronica agli altri, schizzo fuori nella piazza della mangiatoia, mi avvio su per la strada sotto la moschea, voglio arrivare prima di cena alla casa dei Salesiani per salutare degli amici. Pochi passi e tutti i lampioni si spengono.
Torno indietro. Una gentile signora alla reception mi avverte che da qualche tempo ogni sera tolgono la luce, non è consigliabile uscire dopo una certa ora. E aggiunge fiera che l’hotel ha un generatore proprio. Esco di nuovo sulla piazza: in effetti nessuna luce trapela dalle case.
Torno dentro e vado in camera, accolta da un urlo della ragazza con cui divido la stanza “c’è un gatto nella doccia!!!!!!!!”. Butto fuori il gatto e le racconto tutto: “allora non mi asciugo i capelli!” decide inorridita. La sera stessa apprendiamo che le scorte d’acqua arrivano da Israele una volta la settimana. Non ci laviamo per tre giorni, tranne che l’indispensabile, in quel bel bagno di granito scuro …
Entrare e uscire dalla città ogni giorno diventa una lungaggine spaventosa, il muro lo fotografo dovunque, ma il mio soggetto preferito diventa Har Homa, l’insediamento crudele come una ferita nel cielo della Giudea. In due anni è cresciuto di cinque volte, lo si vede da dovunque, a volte le false prospettive di certe strade lo fanno sembrare dentro la città … si, perché ci sono tanti posti a Betlemme che sono talmente in alto da dove il muro non si vede … non si vedrà mai … come dalla terrazza dei salesiani.
Si vede sempre il cielo da dentro Betlemme, se si vuole cercarlo.
Così come si percepirà sempre il muro, da dentro Betlemme, anche se non si vuole vederlo.
Quarta volta: qualche giorno dopo. Torno a Betlemme finalmente per conto mio, per andare a trovare un’amica che abita con la famiglia nel campo profughi di Dehisheh. Prendo un taxi con un amico alla solita porta di Damasco, che dopo un enorme giro ci porta direttamente al campo.
La mia amica ha una bella casa, nonostante per arrivarci la strada si snodi tra macerie e le case siano talmente vicine una all’altra da non sapere come facciano ad avere comunque tutti un minuscolo orto ordinato e quattro galline. Lei parla quattro lingue, suo marito e tutti i suoi cognati sono laureati. E’ molto fiera di mandare le sue figlie al College francescano, la scuola migliore di Betlemme.
Mi offre una tisana per il raffreddore e un piatto di rucola appena colta nell’orto. L’olio è buonissimo. Sono sapori che sono anche miei, da sempre.
Quando sono qui penso a lei spesso. La differenza tra la sua e la mia casa sta solo nel paesaggio esterno, forse è più pulita la sua. Ha un interessante sistema per mantenere perfetto il fornello a gas, che usa anche la mia amica Teresa qui a Colle, e devo ricordarmi che tra un anno avrà finito il profumo. Usiamo lo stesso, per sentici vicine, e so che ci tiene moltissimo.
So che non può uscire da Betlemme. Come quasi tutti i Palestinesi di li.
Siamo venuti via da casa sua che era ormai buio, ci siamo fatti accompagnare al ceck point Palestinese questa volta. In una luce livida hanno mandato indietro con prepotenza un ragazzo davanti a noi perché aveva 12 uova. Non si possono portare uova in Israele. Ha dovuto uscire e buttarle via.
Il mio amico aveva dimenticato il passaporto a Gerusalemme, per un attimo mi sono illusa di tornare a dormire a Dehisheh, nella stanza delle bambine della mia amica. Poi dopo averci squadrato in lungo e in largo, ci hanno fatto passare ugualmente. Fuori dal muro abbiamo preso un mini bus che ci ha riportato in un quarto d’ora a Gerusalemme, per tre shekel, contro i trenta del taxi del mattino.
Ho imparato che non bisogna mai aver paura a fare una vita normale in Palestina.
L’ho imparato dentro il muro.

Alessandra Angeloni
25 aprile 2008

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