“RELICS 10” di Sogni di Pietra

SOGNI DI PIETRA

“Conviene organizzare il futuro con entusiasmo.
Ma per fare questo è necessario salvare il passato.
La storia è fatta di Sogni avvenuti.”
J. L. Borges

Questa frase di Borges riassume la mia esistenza, insieme ad un libretto che mi trovò e mi cambiò la vita: “Pietre che cantano” di Marius Schneider, appena pubblicato da Archè nel 1976.
Credo che in quegli anni in cui si cerca una dimensione dell’essere io abbia capito che potevo essere musicista, architetto e archeologa in un unico atto di creatività: l’ascolto, la misura e l’interpretazione del silenzio delle pietre.
Ho affondato le mie mani sulla pietra e ne ho tratto suono. Ho accordato gli strumenti che erano in quel libricino, esercitandomi nella misura dell’opera dell’uomo, e nella misura del tempo inteso come altezza del suono.
“Sogni di Pietra” sono storie narrate dalle pietre che ho incontrato nella mia vita, quei “sogni avvenuti” che ho cercato di interpretare dai “relitti” di materia antropizzata.
Il passato riconduce al presente interiore e giustifica il proprio modo di esistere come realtà umana. E la mia interpretazione del passato si legge sulla pietra, perché le leggi della mutazione hanno su di lei una misura diversa del tempo: quando non è ancora toccata dall’uomo la pietra simbolizza la perfezione primordiale concretizzata. Sopra di essa si edifica tutto il “visibile”, con essa si esprime tutto l’”invisibile”.
Dar “voce” alle pietre, significa far emergere una storia “parallela”, non deducibile dai criteri culturali della nostra epoca ma “gridata” da capitelli e sculture, dando vita a dei sogni antichi.
“Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus” è un esametro da “De contemptu mundi” di Bernardo Morliacense, un benedettino del XII secolo.
Oltre che essere il verso finale del romanzo “il nome della Rosa” di Umberto Eco, questa frase è riportata nel frontespizio della bibliografia della mia tesi di laurea in architettura (1986), proprio per indicare l’idea che di tutte le cose di un tempo, narrate nei testi e nelle rare fonti riportati nel vastissimo elenco ragionato, rimangono puri nomi.
Abelardo poi ripiglia questo esempio (nulla rosa est) per mostrare come il linguaggio potesse servire ad indicare sia le cose scomparse che quelle inesistenti, dando così un senso alla mia intuizione dell’impossibilità di determinare un confine tra lo scomparso e l’invisibile.
Da questo nasce la definizione da me creata nella tesi di cui sopra di “sogni di pietra”, per indicare i ruderi a cui dare una dignità attraverso la ricerca petrografica, geomatica e archeologica.
( Concetto semantico che si avvicina fortemente al “l’essenziale è invisibile agli occhi” di De Saint Exupèry, che però all’epoca non ritenni ancora opportuno citare).
Ho studiato sogni fatti di pietra con gli strumenti della scienza e dell’ascolto.
E in qualità di sogni di pietra tutte le mie architetture sono state rigorosamente usate come partiture musicali, che avevano la pretesa di esprimere quell’essenza ormai riducibile a puro suono.

L’immagine superata dal nome, il nome superato dal suono.
“Sogni di Pietra” è stato il titolo di un gruppo di brani musicali progettati ed eseguiti con tecniche elettroniche nel 1991 col gruppo “TAS – tecnologie delle arti sonore”.
Tute le volte che scavo, che misuro, che “restituisco” i miei rilievi lavoro come ad una partitura musicale, studiando altezze e forme d’onda.
Ma soprattutto, ponendomi ogni volta in ascolto. E cercando tecniche di misura = conoscenza sempre più raffinate.
Non pongo alla mia ricerca nessun’altro confine se non quello della mia stessa vita.

Alessandra Angeloni
Sogni di pietra

21 agosto 2009
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per l’ascolto:

http://www.myspace.com/tecnologiadelleartisonore

“RELICS 5” di Sogni di Pietra

“UN MURO NON BASTA”

Muro – Palestina.

Per chi mi chiede perché, a chi mi domanda cosa è il muro in Palestina: non posso fare altro che raccontare il muro, per quanto l’ho potuto sperimentare.

Prima volta: agosto 2001. Il muro non esiste ancora. Arrivo a Betlemme durante la seconda intifada su un taxi collettivo, due ore da Gerusalemme porta di Damasco, un giro improbabile su strade sterrate tra sterpaglie e sassicaie dorate, un cielo blu e una signora con i polli nella cesta.
Qualche casa dopo questa specie di deserto, poi il centro vuoto, i negozi sbarrati, la Chiesa della Natività vuota, un monaco ortodosso mi regala le ultime due candeline, e mi segue senza sguardo mentre attraverso i drappi polverosi della grotta della Mangiatoia, dove tutto sembra fresco nella luce calda delle candele. Poi la sagoma gigantesca di un francescano mi fa cenno di seguirlo, dobbiamo andare. Il ceck point, pochi baggioli di cemento armato e una guardiola, è circondato da carri armati e mentre guardo il paesaggio magnifico tra il tetto delle camionette israeliane e il cielo, il gigante mi accompagna fino a S. Salvatore in un quarto d’ora, al centro di Gerusalemme. L’incoscienza e la gioia di esserci mi regalano un ricordo che mi rende per sempre “testimone” di un’assenza.

Seconda volta: novembre 2005. Arrivo a Tel Aviv a un’improbabile ora della notte e parto immediatamente per Nazareth su un autobus. E’ buio, cerco di dormire, ma sono li e ogni tanto devo guardare fuori dal finestrino … e una sequela impressionante di tir passano sull’altra corsia, ognuno con un pezzo di prefabbricato in cemento armato … un pezzo di muro. Chiudo gli occhi e cerco di pensare “sono qui, dove voglio essere”.
Betlemme, qualche giorno dopo. Arrivo di corsa su un pulman con un gruppo di studenti. Si scende, ceck point extra lusso appena inaugurato, sembra un aeroporto. Fotografo disperatamente finchè una voce minacciosa mi impone di smettere. Ci ricomponiamo sul pulman, che è stato perquisito minuziosamente mentre con altrettanta acribia veniamo soppesati noi, pilotati da voci metalliche. Ok anche questa è fatta. Siamo dentro. Questa volta davvero. Percepisci il dentro, l’essere dentro, il muro che stringe le case … e quando non lo vedi lo senti, dentro i negozi riaperti, nel campo dei Pastori, nella Grotta della Natività, colma di gente, felicità di un’aria irrespirabile … Non so perché sono ancora felice di essere li, la luce delle candele e la polvere sono il segno di un’eternità di presenza di fede. Improvvisamente sulla piazza esplodono le campane, poi la preghiera dei muezzin, le chiacchiere … e il muro-che-c’è è ritagliato laggiù, grigio, insieme all’insediamento tutto bianco, spettrale, di Har Homa che ha distrutto una collina … ma negli occhi ho ancora i mosaici bizantini e nel cuore le porte troppo basse della Basilica. Ritrovo il gigante buono che mi riconosce e mi abbraccia. Gli sussurro “sei un eroe, grazie”, lui ride … asciugo una lacrima, mi sento un’idiota. E’ padre Faltas, che ha gestito i cinquanta giorni dell’assedio del 2002 della Natività.

Terza volta: novembre 2007. Il muro è dappertutto. E’ grigio, sciatto, sporco. Tutti pensiamo di sapere tutto sul muro. Le mie foto del 2005 sono allegre e pittoresche rispetto a due anni dopo. O sono io che ho cuore e occhi diversi.
Finalmente entro a Betlemme, dormo a Betlemme per qualche giorno. Ingresso privilegiato al ceck point, tanto più grigio, anche se tutto sembra andare come se niente fosse. Pernotto al Casa Nova Palace, il posto più di lusso dove mai abbia dormito tra Palestina e Israele.
TV e asciugacapelli in camera, evito di guardare se funzionano. Qualcuno suona il pianoforte a coda nel salone centrale, i gatti del direttore dormono a pancia all’aria dovunque sui divani morbidissimi … Internet adsl a disposizione della clientela.
Lascio la brama del controllo della posta elettronica agli altri, schizzo fuori nella piazza della mangiatoia, mi avvio su per la strada sotto la moschea, voglio arrivare prima di cena alla casa dei Salesiani per salutare degli amici. Pochi passi e tutti i lampioni si spengono.
Torno indietro. Una gentile signora alla reception mi avverte che da qualche tempo ogni sera tolgono la luce, non è consigliabile uscire dopo una certa ora. E aggiunge fiera che l’hotel ha un generatore proprio. Esco di nuovo sulla piazza: in effetti nessuna luce trapela dalle case.
Torno dentro e vado in camera, accolta da un urlo della ragazza con cui divido la stanza “c’è un gatto nella doccia!!!!!!!!”. Butto fuori il gatto e le racconto tutto: “allora non mi asciugo i capelli!” decide inorridita. La sera stessa apprendiamo che le scorte d’acqua arrivano da Israele una volta la settimana. Non ci laviamo per tre giorni, tranne che l’indispensabile, in quel bel bagno di granito scuro …
Entrare e uscire dalla città ogni giorno diventa una lungaggine spaventosa, il muro lo fotografo dovunque, ma il mio soggetto preferito diventa Har Homa, l’insediamento crudele come una ferita nel cielo della Giudea. In due anni è cresciuto di cinque volte, lo si vede da dovunque, a volte le false prospettive di certe strade lo fanno sembrare dentro la città … si, perché ci sono tanti posti a Betlemme che sono talmente in alto da dove il muro non si vede … non si vedrà mai … come dalla terrazza dei salesiani.
Si vede sempre il cielo da dentro Betlemme, se si vuole cercarlo.
Così come si percepirà sempre il muro, da dentro Betlemme, anche se non si vuole vederlo.
Quarta volta: qualche giorno dopo. Torno a Betlemme finalmente per conto mio, per andare a trovare un’amica che abita con la famiglia nel campo profughi di Dehisheh. Prendo un taxi con un amico alla solita porta di Damasco, che dopo un enorme giro ci porta direttamente al campo.
La mia amica ha una bella casa, nonostante per arrivarci la strada si snodi tra macerie e le case siano talmente vicine una all’altra da non sapere come facciano ad avere comunque tutti un minuscolo orto ordinato e quattro galline. Lei parla quattro lingue, suo marito e tutti i suoi cognati sono laureati. E’ molto fiera di mandare le sue figlie al College francescano, la scuola migliore di Betlemme.
Mi offre una tisana per il raffreddore e un piatto di rucola appena colta nell’orto. L’olio è buonissimo. Sono sapori che sono anche miei, da sempre.
Quando sono qui penso a lei spesso. La differenza tra la sua e la mia casa sta solo nel paesaggio esterno, forse è più pulita la sua. Ha un interessante sistema per mantenere perfetto il fornello a gas, che usa anche la mia amica Teresa qui a Colle, e devo ricordarmi che tra un anno avrà finito il profumo. Usiamo lo stesso, per sentici vicine, e so che ci tiene moltissimo.
So che non può uscire da Betlemme. Come quasi tutti i Palestinesi di li.
Siamo venuti via da casa sua che era ormai buio, ci siamo fatti accompagnare al ceck point Palestinese questa volta. In una luce livida hanno mandato indietro con prepotenza un ragazzo davanti a noi perché aveva 12 uova. Non si possono portare uova in Israele. Ha dovuto uscire e buttarle via.
Il mio amico aveva dimenticato il passaporto a Gerusalemme, per un attimo mi sono illusa di tornare a dormire a Dehisheh, nella stanza delle bambine della mia amica. Poi dopo averci squadrato in lungo e in largo, ci hanno fatto passare ugualmente. Fuori dal muro abbiamo preso un mini bus che ci ha riportato in un quarto d’ora a Gerusalemme, per tre shekel, contro i trenta del taxi del mattino.
Ho imparato che non bisogna mai aver paura a fare una vita normale in Palestina.
L’ho imparato dentro il muro.

Alessandra Angeloni
25 aprile 2008

per l’ascolto:

 

“RELICS” di Sogni di Pietra

Scavavo a S. Antimo, furiosamente, sotto la pioggia gelida, da sola.
Per recuperare esasperati frammenti di vita senza ragione, senza “valore”.
E tutto scivolava tra il fango, i miei piedi, le mie mani, quei poveri oggetti, la giusta misura tra l’agonia e il buon senso.
E tutto parlava di incontri, come la prima volta a Genova sotto il diluvio, mentre la ruspa si portava via pezzi di ceramica colorata in piazza Caricamento e menomale pioveva così non si vedevano le mie lacrime e menomale c’era un rumore d’inferno che copriva la mia voce.
Relitti.
Con la faccia bagnata e i capelli grondanti promisi di raccontare la storia di ognuno di quei relitti senza senso, raccontando storie di uomini conosciuti anche solo per un attimo attraverso una pennellata, un suono, un sapore.
Presenze nelle assenze.
“Un uomo si propone il compito di disegnare il mondo. Trascorrendo gli anni, popola uno spazio con immagini di provincie, di regni, di montagne, di baie, di navi, di isole, di pesci, di dimore, di strumenti, di astri, di cavalli e di persone. Poco prima di morire scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l’immagine del suo volto.”
J. L. BORGES

 

1935281_101459036536478_2101815_nAlessandra Angeloni per “Sogni di Pietra”
21 novembre 2009

da ascoltare: