Cartolina da Gerusalemme

“Allora ti lasciamo davanti alla Porta Nuova, non c’è tempo per arrivare nel cortile di San Salvatore”
“Va benissimo, grazie”
“Ciao Ale stammi bene”
“Grazie Francesco, ci vediamo tra una decina di giorni, fate buon viaggio! Arrivederci professore, stia tranquillo, sistemo un paio di cose qui”
“Ciao ciao Alessandra, tanto sai dove andare, aspetta ti aiuto a scaricare la valigia”
“Grazie Ricardo, grazie, faccio da sola!”
“Ciao, stasera chiamami a Nazareth, quando ti sei sistemata”
“Si Ricardo, si, ciao”
“Ricardo andiamo, facciamo tardi all’aereoporto!”

Prendo a passi rapidi verso la porta e mi fermo.
No, non sono io a fermarmi, è il sapore di un desiderio vissuto: sono sola a Gerusalemme.
E’ lo stupore di essere a Gerusalemme che mi ha fermato, chiedendomi subito conto di ognuno dei miei passi, di ogni mio respiro, di tutti i miei pensieri.
Sono sola a Gerusalemme.
Sola.
Non io sono ferma in mezzo alla strada, è la strada che ha fermato i miei passi.
Le pietre della strada non sono sole, fanno una strada.
Rimango ferma e sento che tutto è vivo, la stoffa della mia camicia che mi accarezza la pelle – non mi ero mai accorta che lei mi accarezzava così.
Guardo le mie scarpe e mi mette allegria pensare che sono le uniche con cui non si scivola sulle pietre troppo lisce della città.
Le pietre.
Ognuna di loro accoglie il mio peso per il tempo del mio passare.
Amo le pietre delle strade di Gerusalemme, perché ad ogni passo mi insegnano il rispetto e l’attenzione per ognuna di loro.
Dunque sono sola e non sono sola perchè i piedi si compiacciono della pietra.
Piano alzo gli occhi dalla strada e vedo altri profumi densi di stupore. E luce e aria tersa.
Lo stupore diventa una lente e mi vedo piccola, con la camicia bianca, seduta sulla mia valigia rossa.
C’è solo questo, e un tappeto di pietre da attraversare.
Oggi voglio affondare con calma ogni mia lacrima nelle pietre di Gerusalemme.
Di solito a Gerusalemme si cammina a passo spedito. Sempre, in questo clima di desiderio.
Trascino la valigia rossa fino al Santo Sepolcro, voglio abbracciare il pavimento. Si, il pavimento. Voglio abbracciare il pavimento a faccia in giù come fanno i preti quando vengono consacrati.
Quante pietre copre il mio corpo, questo voglio sentire, insieme all’odore di polvere e di passi della chiesa più trasandata della terra.
Arrivo al mio posto tra due colonne del transetto della Vergine, ne abbraccio una stringendola forte, e mi siedo accarezzando tutte le croci che ci sono incise.
“Alexandra! Che Dio ti benedica, sei arrivata!”
Una luce si apre dietro alla porta, lasciando intravvedere un ritaglio di blù, la corte del convento ortodosso.
“Metti la valigia qui nell’ingresso e vai a salutare!”
“Pantaleo! … ma …”
Mi abbraccia forte, e sento l’odore della tonaca vecchia e sporca, l’odore di S. Sepolcro … di pietre e polvere, di fede benedetta dalla gioia, di incenso e ambra.
A sera riesco a sdraiarmi a faccia in giù davanti al Calvario, mentre i monaci passano la scaletta dentro il portone che viene chiuso per la notte.
Quando mi alzo la mia camicia è sempre bianca e il mio cuore ha la forma della Stella a dodici punte che sta sul luogo del martirio, o almeno mi piace pensarlo.
Mi piace non pensare nel Sepolcro. Temo di essermi addormentata appoggiata a un capitello bizantino a cesto talmente grande da non poter essere contenuto nella mia immaginazione, prima di averlo visto. Il muezzin sta intonando la preghiera delle quattro e mi accarezza il cuore con le mille declinazioni dell’amore per Dio. Tra poco incominceranno i greci, poi gli armeni, poi i latini.
Bacio il capitello e scendo al Sepolcro immerso nel buio.
Attendo la luce dell’alba che scende a raggi dall’alto della cupola e il momento di andare.
I miei passi sono leggeri, di nuovo veloci lungo la strada di pietre lucide.
La vita scorre a Gerusalemme e nelle mie vene.
Finalmente porto a casa la valigia rossa, l’appoggio sull’armadio senza aprirla.

La tua valigia blu è il legame più forte che c’è tra noi.
La guardo sempre dopo aver fatto l’amore appoggiata sull’armadio, chiusa, in un attimo apparente prima di ripartire. La valigia che mi hai prestato qualche volta e di cui adesso non ho più bisogno perché ne ho una rossa, chiusa su un armadio a Gerusalemme.
E la mia mente tira una linea precisa tra due punti sul mondo in cui stanno due valige e penso che quella che le separa è la distanza giusta.
Come l’amore tra noi è la misura giusta, ne più ne meno, dell’amore.
Esco e mi avvio verso la porta di Damasco.

Mi siedo sotto le volte, al bar accanto al cambiavalute.

Qui finalmente non sarò più straniera.
Alla porta di Damasco.

Alessandra Angeloni

30 ottobre 2009

FOTO1

Archi della Vergine – Transetto Nord Santo Sepolcro

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